di Marilena Pecoraro
Riprendendo
l’articolo di Federico Florian pubblicato nella rivista KLAT a proposito del Padiglione di Israele
alla Biennale di Venezia del 2013, Diario #14, introduciamo il lavoro di Gilad
Ratman, The Workshop 2013. Ci sembra
interessante, come fa Florian, iniziare con la citazione da Le città invisibili di Italo Calvino (VIII capitolo: Le città e i morti,
4), cove si parla una città, Argia, completamente scavata nella terra.
«Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che invece d’aria ha
terra. Le vie sono completamente interrate, le stanze sono piene d’argilla fino
al soffitto, sulle scale si posa un’altra scala in negativo, sopra i tetti
delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nuvole. Se gli
abitanti possono girare per la città allargando i cunicoli dei vermi e le
fessure in cui s’insinuano le radici, non lo sappiamo: l’umidità sfascia i
corpi e lascia loro poche forze; conviene che restino fermi e distesi, tanto è
buio».
Scrive
infatti Federico Florian che l’opera presentata dell’artista israeliano Gilad Ratman per la Biennale di
Venezia 2013 consiste in una spedizione di persone che
partendo da Israele attraverso un tunnel scavato nel sottosuolo della terra
raggiungono Venezia per
partecipare ad un workshop di scultura .
(...) L'artista stesso racconta una
storia bizzarra e paradossale. La sua installazione, intitolata The Workshop, è composta da
video, sculture d’argilla e da un impianto mixer. Non appena si varca la soglia
del Padiglione, una melodia cupa, cavernosa che avvolge il visitatore – pare
emergere dalle profondità del cratere scavato nel mezzo - riporta i suoni e i
rumori della terra ….
(...)
Urla e lamenti strazianti prorompono nella stanza, in un crescendo che
avviluppa le pareti. Ora, il fragore stridente di una conflagrazione, e poi il
silenzio.
I
video illustrano le diverse fasi della spedizione: la partenza della compagnia
nelle caverne d’Israele, il percorso sotterraneo attraverso il Medio Oriente e
l’Europa e, infine, l’arrivo a Venezia e l’inizio del workshop. Quest’ultimo, in particolare, consiste in un laboratorio di lavorazione dell’argilla. Ciascun componente del
gruppo modella un proprio autoritratto scultoreo: la creta viene plasmata con
ardore e brutalità....(...) Nelle sculture sono impiantati
dei microfoni, che registrano le grida e i muggiti degli esecutori – il
workshop sembra un primitivo rituale dionisiaco.
Un
DJ, al piano inferiore, mixa i lamenti provenienti dalle "protesi audio": è così
che viene elaborata la musica che accoglie i visitatori del padiglione – una
nenia sinistra, dolorosa, che rimanda a una dimensione primigenia, precedente a
qualsiasi civiltà. L’installazione di Ratman – irrazionale,
vitale, arcaica – rivela una profonda connotazione politica: riflette sul senso
di confine e frontiera nazionale; mette in scena un’utopia, quella della libera
circolazione tra le nazioni, resa possibile da un’immaginaria rete di canali
sotterranei in grado di connettere segretamente l’intera superficie terrestre.
Un modello, dunque, che guarda nostalgicamente a un originale stato di natura
in cui non esistono entità politiche differenziate.
L’artista, indubbiamente,
allude a una situazione particolare e a lui vicina: i tunnel del contrabbando
di Gaza, la “zona calda” del Medio Oriente, l’insanabile conflitto tra Israele
e Palestina. Un conflitto che soltanto il sogno e l’utopia possono appianare.
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